Roberto Bombarda - attività politica e istituzionale | ||||||||||||||||||||||||||||
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Trento, 21 novembre 2005 Quarant’anni fa, l’inizio della industrializzazione diffusa, l’abbandono dell’agricoltura, il trasferimento progressivo verso le città provocarono il primo forte scossone nell’istituto che da molti secoli ormai è considerato il nucleo principale e, per certi aspetti, fondante della nostra civiltà occidentale: la famiglia. Il modello di famiglia patriarcale attorno al quale si era sviluppata la società rurale fu spazzato via in pochi anni e sostituito dalla cosiddetta famiglia nucleare. Oggi questo modello sembra giunto sulla soglia di un’altra trasformazione epocale. La famiglia – sia pure composta di due o tre persone, genitori/figli, legata tuttavia da forti vincoli affettivi, etici, ma anche patrimoniali – sta lentamente ma progressivamente evolvendo verso forme di convivenza meno strutturate: viene messo in discussione – nel senso che non ha più una grandissima importanza – il vincolo matrimoniale, con gli effetti anche sul piano sociale, civile e patrimoniale, nascono meno figli o nascono molto più tardi rispetto alla generazione precedente. Cresce il numero delle persone che vivono da sole, non come effetto del decesso del coniuge ma per scelta di vita, fin da giovani, mentre per gli anziani autosufficienti e soli c’è un numero sempre crescente di “badanti”, quasi tutte provenienti da paesi stranieri, che spesso vivono in casa ed accudiscono l’ospite. Si aggiunge poi, ma come fenomeno quantitativamente meno significativo, anche se è quello che suscita (forse per la novità) maggior attenzione, la coabitazione di coppie dello stesso sesso. Le ragioni di tutto questo non sono certo solo attribuibili, come sembrano affermare i settori più conservatori della società, a lassismo, crisi dei valori tradizionali, crisi della civiltà occidentale ancorata a forti valori etici e religiosi. Anzi sembrerebbe che tutto questo c’entri molto poco. E’ invece uno sviluppo economico che riduce la richiesta di manodopera, che provoca l’ingresso tardivo dei giovani nel mondo del lavoro e che li priva di adeguate prospettive di reddito tali da consentire la formazione di una famiglia in età relativamente giovane, il precariato, lavori per brevi periodi e mal retribuiti, la flessibilità, cioè la disponibilità a continui trasferimenti da città a città, la vera causa di questa trasformazione. Dopo la famiglia patriarcale e dopo quella “nucleare” sembra ora la volta della famiglia “leggera”, di fatto, per l’appunto, senza regole rigide, con pochi vincoli, anche patrimoniali, e che si scompone e ricompone con grande facilità. Riflettere su un fenomeno significa anche conoscerlo nella sua dimensione quantitativa: non sempre la percezione sociale di un problema coincide con la sua dimensione. Le coppie gay fanno discutere, ma non sono certo l’aspetto più rilevante del fenomeno “trasformazione della famiglia” di cui discutiamo e con cui dobbiamo fare i conti. Gli ultimi dati Istat disponibili (risalgono al biennio 2000/2001) ci dicono che le famiglie, in Italia, raggiungono quasi i 22 milioni, con 2,6 componenti mediamente, considerando per famiglia l’insieme delle persone coabitanti legate da vincoli di matrimonio o parentela, affinità, adozione, tutela o affettivi. Si tratta dunque di una definizione di famiglia più ampia rispetto a quella intesa dalle istituzioni ecclesiastiche. La famiglia così definita può contenere un nucleo, può essere formata da un nucleo più altri membri aggregati, da più nuclei (con o senza membri aggregati), o da nessun nucleo (persone sole, famiglie composte ad esempio da due sorelle, da un genitore con figlio separato, divorziato o vedovo, ecc.). Crescono i single: quasi un quarto delle “famiglie” (sempre intese in senso “statistico”) è rappresentato da persone sole, per un totale di 5 milioni e 217 mila individui. La famiglia “nucleare”, intesa tradizionalmente come genitori e figli rappresenta ormai solo il 42,4% del totale delle famiglie. Crescono invece le nuove tipologie familiari costituite da libere unioni, o convivenze more uxorio, cioè unioni non sancite da un matrimonio, e da famiglie “ricostituite”, cioè formatesi dopo lo scioglimento di una precedente unione coniugale di almeno uno dei due partner. Si tratta complessivamente del 7,4% delle famiglie, oltre 800 mila complessivamente. La politica, da qualche anno, si sta interrogando su questo fenomeno e, sia pure in modo frammentario, sta adeguando il sistema del welfare. Si stanno cambiando le regole per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, equiparando alla famiglia tradizionale composta da genitori e figli anche le nuove forme di convivenza stabilizzate. Personalmente ho chiesto ed ottenuto, proprio pochi mesi fa, all’assessore provinciale al welfare l’impegno ad adeguare i regolamenti per l’accesso all’edilizia popolare tenendo conto di questo nuovo fenomeno sociale. Si tratta anche di consolidare un processo a sostegno delle fasce più deboli (penso ad esempio agli anziani soli, alle coppie di anziani che si ricompongono dopo che uno o entrambi i membri sono rimasti vedovi) per i quali vanno previsti (dove non ci sono) o potenziati i servizi alla persona. Occorre tener conto delle esigenze di socializzazione per evitare che solitudine e depressione siano le condizioni di vita degli anziani. Non è nemmeno secondario il problema della definizione di regole per chiarire diritti e doveri di reciproco aiuto e sostegno anche per le copie di fatto o per la definizione dei rapporti patrimoniali. Qualcosa è stato fatto per quanto riguarda il diritto di successione, ma è ancora troppo poco. Nessuno ha la soluzione in tasca, ovviamente, Ciò che conta, tuttavia, è di affrontare la discussione in modo non ideologico, cercando di non ferire le legittime sensibilità di ciascuno. Se nella lettura di un fenomeno come quello delle “coppie di fatto” (come abbiamo visto sopra, assai complesso e diversificato anche territorialmente) ci facciamo troppo condizionare da visioni etiche o religiose, o semplicemente lo neghiamo in nome dei cosiddetti “valori tradizionali” (che ci dispiaccia o meno non sono in realtà percepiti più come tali dalla maggioranza della popolazione), dovremo presto fare i conti con situazioni di crisi ben più gravi di quella che comunque già oggi registriamo. Proviamo a chiederci, per comprendere quest’ultimo aspetto, cosa sarebbe successo nella vita delle grandi città industriali del nord, quarant’anni fa, se attorno alle fabbriche anziché far nascere nuovi quartieri per consentire l’immigrazione e l’integrazione sociale, pur tra mille contraddizioni e difficoltà, dei lavoratori provenienti dal sud dell’Italia ci si fosse limitati a costruire i soli dormitori per i lavoratori. La sfida della società postindustriale ci impone dunque senso di responsabilità e capacità di affrontare in modo razionale questo nuovo fenomeno, che inevitabilmente si intreccia con quello altrettanto importante dell’integrazione delle famiglie immigrate da paesi extracomunitari, portatrici di valori e culture diverse. Roberto Bombarda
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